In viaggio con “Il Grand Tour” di Adele Costanzo
Non solo cronaca del Grand Tour che il giovane Henri Trespetit compie in Italia con il suo precettore Bachume: il secondo romanzo di Adele Costanzo è anche un viaggio nella storia universale di uomini e paesi.
Un vero artista usa la tecnica con il cuore, per questo Adele Costanzo si può definire tale. Lo dimostravano già i suoi racconti, compresi quelli della raccolta “L’isola di Paris”, e il suo romanzo d’esordio “Cronache della città capovolta”; ora lo dimostra pure il suo secondo romanzo: “Il Grand Tour”, edito da ChiPiùNeArt e segnalato al Premio Calvino 2014.
Come suggerisce il titolo, si tratta – almeno formalmente – della cronaca di uno dei tanti Grand Tour che, a partire dal Seicento, gli aristocratici erano soliti fare in Europa, con l’Italia come tappa quasi obbligata. In queste pagine, in particolare, è il giovane Henri, figlio del giudice Trespetit, a compiere, insieme al suo precettore Bachume, questo tour, scegliendo come meta esclusiva il Bel Paese e alcune delle sue più importanti città.
Dopo il racconto “I viaggi” contenuto nell’antologia “La valigia del Rosso”, l’autrice torna, dunque, a occuparsi di questo tema, concedendo, però, a se stessa e a noi lettori più spazio per sviscerarlo e per sconfinare in altri argomenti connessi e non meno interessanti.
STILE AMMALIANTE, TRAMA AVVINCENTE E PROFONDA SENSIBILITÀ – Con il suo stile ammaliante, anche in questo romanzo Adele Costanzo conquista il lettore e se lo porta dietro fino all’ultima pagina. Non, però, obnubilandogli la mente con visioni oniriche che ne indeboliscono la volontà, ma stuzzicando la sua curiosità e stimolando il suo spirito critico. Per farlo si avvale di una trama avvincente e mai scontata, di vivide pennellate di paesaggi (interiori ed esteriori) come pure di efficaci riflessioni, incastonate nell’una e nelle altre. E se fin qui è tutta una questione di tecnica, è, invece, la sua sensibilità a far sì che il lettore non solo s’affezioni ai protagonisti, condividendo i loro stati d’animo, ma riesca persino a percepire gli umori dei luoghi che questi attraversano e delle comunità con cui entrano in contatto. Con gli occhi dei personaggi, il lettore vede, dunque, la Dora «che se ne andava a morire nel Po […]» o quella «finestra divaricata sul tramonto» o, ancora, quel fiumiciattolo che «annaspava sotto il poggio come se non avesse fretta di consegnare le sue acque agli stagni […]». O, ancora, non può che concordare con il giudice Trespetit a cui la nostra Penisola «Esposta ai quattro venti, […] sembrava una terra di mare pronta a concedersi, dalle gambe aperte come quelle di certe donne».
PIÙ CHE STORICO, UN ROMANZO UNIVERSALE – Come anticipato, il romanzo è solo formalmente un diario di viaggio ambientato nel passato. “Il Grand Tour” apre, infatti, una nuova collana, “I melograni”, con cui la casa editrice ChiPiùNeArt intende proporre opere di genere storico «in cui il lavoro di ricerca storica si accompagna a una narrazione che affronti situazioni e problematiche di interesse generale». Pertanto, annunciano gli editori nel presentare la collana, «Consapevoli del fatto che la storia è ricostruzione, e che ogni storia comprende, in qualche modo, una storia del presente, sceglieremo romanzi in cui interrogativi e inquietudini che ci appartengono si muovono all’interno di coordinate temporali “altre”». E di inquietudini che ci appartengono in queste pagine ne troviamo tante, non certo perché l’autrice abbia, per così dire, forzato la mano, ma perché i dilemmi in cui si dibatte l’Uomo cambiano magari veste ma mai sostanza, legati come sono alla sua natura e al fatto che – purtroppo o per fortuna – la storia è un movimento ciclico.
Fin troppo attuale è, infatti, l’idea (non solo) di Bachume che «Il denaro e il privilegio affratellano più di quanto le opinioni non dividano. È nella ricchezza la vera appartenenza. Le guerre di religione: ecco l’imbroglio». Ma valide per il nostro oggi sono pure le riflessioni del capitano Florentin sul “nemico”, su quel “diverso” che, visto da vicino, non sembra poi così diverso da noi o da quello che, nati e cresciuti nel suo contesto, probabilmente saremmo stati.
LE “CRONACHE” E “IL GRAND TOUR” A CONFRONTO – Chi ha letto anche il precedente romanzo di Adele Costanzo sa che le due opere hanno un’ambientazione storica simile: le “Cronache” sono collocate nel periodo a cavallo tra Settecento e Ottocento; qui, invece, il contesto è l’inizio del Settecento. Precisa anche l’ambientazione geografica: nel primo caso ben definita (Europa centrale, nei pressi della Francia) ma fittizia (il Granducato di Mensuria); nel secondo altrettanto ben identificata (Francia e Italia, dove prevalentemente si sviluppa la trama) però reale. Entrambi i romanzi, inoltre, sono frutto di un’accurata ricerca – attestata dalla bibliografia riportata in coda – senza la quale questa precisa ricostruzione del contesto storico-geografico non sarebbe stata possibile.
Lo stile è rimasto quello elegante del romanzo d’esordio, ma qui si fa a tratti più “sanguigno”, intelligentemente adattandosi all’umore e all’indole dei personaggi cui deve dare voce. Anche ne “Il Grand Tour” non mancano, inoltre, altri due tratti della firma di Adele Costanzo: un pizzico di raffinato erotismo, presente appunto a piccole e stuzzicanti dosi, e l’amore per gli animali, anche stavolta celebrato con uno splendido passaggio che vede per protagonista un cane (qui Zecca, nelle “Cronache” Messidoro).
E poteva forse venire a mancare la sua acuta ironia? Certo che no. Anzi, è uno degli strumenti cui più ricorre per affrontare temi spinosi o, comunque, delicati. Godibile, in particolare, il suo modo di canzonare la religione e quel suo mescolarsi, molto latino, con magia e superstizione. È un’ironia, però, che mai sconfina nell’irriverenza, perché «Il buio e il vuoto sono così, ognuno ci mette dentro quello che gli pare, anche nulla, perché almeno di questo non si dovrebbe rendere conto a nessuno. E ogni ipotesi dovrebbe essere considerata corretta, fino a prova contraria».
Tuttavia, in alcuni casi e riguardo ad altri temi, l’autrice si lascia andare a una vera e propria satira sociale: «[…] la ragazza era intenta alle consuete incombenze del mattino quali rifare il letto, attizzare il fuoco, appendere un vestito e le innumerevoli altre piccole faccende legate al risveglio di coloro che, per condizione sociale ed economica, non possono occuparsene di persona».
Non sempre, però, la vis polemica si lascia ammansire dall’umorismo: espresse in tutta la loro durezza sono, ad esempio, le considerazioni sulla guerra e sull’arruolamento “volontario” dei giovani. Contestazioni che, purtroppo, solo in parte possono ricondursi al tempo che fu.
Su un punto, invece, la differenza con le “Cronache” è netta: la caratterizzazione dei personaggi. Nel romanzo d’esordio, l’autrice proponeva una serie di personaggi quasi simbolici, dotati sì di personalità ma al contempo volutamente non del tutto identificati, tanto da essere individuati non per nome ma con il loro ruolo sociale/professionale (la Lavandaia, il Ministro, il Filosofo…). Ne “Il Grand Tour”, invece, i personaggi hanno identità ben definite (a partire dal nome) e personalità maggiormente esplorate. Anche questo, però, naturalmente non è un caso: le “Cronache” sono la storia di una comunità, quella di Mensuria, narrata dal coro polifonico dei suoi abitanti; “Il Grand Tour”, invece, è un intreccio casuale di singole esistenze, reso possibile da un viaggio che, al contempo, lo allenta e lo restringe in maniera imprevedibile.
A ben guardare, tuttavia, anche i singoli personaggi di questo secondo romanzo, in particolare i protagonisti Henri e Bachume, potrebbero essere considerati dei simboli, dei modelli. Non solo, com’è intuitivo, allievo e maestro, ma forse pure il punto di partenza e di arrivo del percorso d’iniziazione che, a suo modo, ogni uomo compie. Ma che il punto di partenza sia rappresentato solo dal più giovane dei due e il punto d’arrivo solo da quello più maturo è un’ovvietà in cui, naturalmente, l’autrice non è inciampata.
L’ASSENZA, L’ALTRA FACCIA DEL VIAGGIO – Henri e Bachume sono, dunque, anche simboli o, meglio, tramite per affrontare i temi più profondi del romanzo. Tra questi, la solitudine e quell’eleggersi vicendevolmente a compagni di viaggio, soprattutto in senso metaforico, da cui scaturisce ogni rapporto vero d’amore o d’amicizia (che del primo è una bella declinazione).
Solitudine e compagnia sono, se non due punti cardine del romanzo, sicuramente due punti nodali, al punto da farlo apparire un libro più sull’assenza che sul viaggio. Forse perché se una faccia di quest’ultimo è la pienezza (di luoghi, sensazioni, incontri…), l’altra è senza dubbio il vuoto che chi parte lascia in chi (o in ciò che) rimane e viceversa. Del resto, come scrive l’autrice, «[…] non c’è acquisto che non comporti perdite […]».
NON PERDERE CIÒ CHE SI PUÒ NON PERDERE – È tanta l’amarezza che si percepisce in queste pagine, soprattutto quando la narrazione si sofferma sul saggio, sfuggente e, di conseguenza, fascinoso Bachume. Fa male, per esempio, dovergli dar ragione quando pensa che «C’è un’ironia feroce nel sogno che si realizza quando hai smesso di sognare. Sono gli appuntamenti mancati, le asincronie, e si verificano quando la cosa che volevi, che sia una donna, la bella stagione, la ricchezza o la maggiore età , un giorno arriva ma tu non sai che fartene perché è successo che nulla più t’importi né ti smuova, a parte l’istinto primordiale a sopravvivere».
Tuttavia, anche in questo romanzo ci sono barlumi di speranza per tutti, anche per il lettore, che può farsi forte con l’idea che «[…] non tutte le terre che non sono ancora salve sono perdute […]».
Per ora, infatti, nessuno di noi è salvo. Anzi, spesso siamo bisognosi, come Henri Trespetit, di un Bachume che con lo stesso piglio ci riprenda: «Guardati intorno qualche volta […]. C’è un mondo intero che s’arrabatta oltre la punta del tuo naso». Chissà, però, che in questo non siamo irredimibili, posto che «Siamo fatti così, per quanto ci impegniamo il nostro campo visivo rimane limitato. Non s’allontana mai troppo dal centro» e che, pertanto, «[…] qualunque torto facciano agli altri è a te stesso che pensi».
Proviamo, però, a fare comunque tesoro di questo diario di viaggio, in particolare dell’ammonimento a fuggire il «tempo disadorno», perché «[…] gioielli, amore denaro, libertà, tutto può essere rubato, recuperato e perso ancora. Il tempo no. I giorni buttati, o portati via, non tornano indietro».
UN MANUALE DEL BUON VIAGGIATORE – “Il Grand Tour” è, quindi, un libro per imparare a viaggiare nella vita, ma ovviamente anche nel mondo. Si può, infatti, considerarlo anche un manuale del buon viaggiatore, ben più utile di quanto si possa pensare perché «[…] ogni paese reca impresse le tracce di chi ci ha preceduto, a saperle cercare. Però generalmente i viaggiatori non prestano attenzione al solco dell’aratro e all’opera del taglialegna, né ai muretti di pietra: non hanno occhi che per l’oro dei mosaici e i marmi delle chiese e dei palazzi». Sono pochi di certo i viaggiatori che, al pari di Bachume, pensando all’antica Posidonia o a qualunque altra città abbandonata si domandano «[…] chi fu l’ultimo che abbia pensato a lei con familiarità e ne abbia sentito la mancanza. In che momento il suo ricordo smise di far male e in quale giorno l’erba ricoprì ogni cosa, perfino il rancore per il fatto che s’era lasciata andare così, senza nemmeno provare a resistere […]».
PERCHÉ LEGGERE “IL GRAND TOUR”? – I motivi per avventurarsi in questo Grand Tour sono davvero tanti, ma se non bastassero, è ancora Bachume a fornirne un ultimo, altrettanto convincente: «Sapete qual è la cosa che maggiormente ci distingue dalle altre creature? […] Il bisogno di inventare delle storie e la voglia di starle ad ascoltare».